Sunday, December 24, 2006

Ventiquattro


Devo dire che la vigilia di Natale all’equatore non fa esattamente lo stesso effetto che a casa.
Fuori c’è il sole a picco e le palme e l’unica concessione al Natale è un tizio tutto nero vestito da Babbo Natale che si aggira per il supermercato e proferisce degli “Oh Oh” da far accapponare la pelle.

Nonostante la deprecabile assenza di consona ambientazione, noi ci apprestiamo comunque a fare la cena di Natale.
Che devo dire si preannuncia divertente, visto che a tavola siamo 12 di 12 diverse nazionalità, e l’accordo è che ciascuno fa un piatto del suo paese.

Il menù che ne risulta:

- antipasti svedesi

- tacchino canadese

contorni honduregni
qualcosa di inglese ma non ho idea di cosa
insalata tedesca
apple pie america

tiramisù (sull’opportunità o meno di fare un tiramisù ai tropici conoscete già la mia opinione, ma vabbè mica potevo fare la guastafeste.)

Più piatti a sorpresa per gli altri paesi.

Un po’ mi manca il cocktail di scampi e la spigola delle zie (a proposito, mi aspetto almeno un commento con il menù della cena ;) ) ma per quest’anno sopravviverò.

Poi domani alle sei del mattino monto su un pullman e inizio la lunga tradotta verso la Tanzania e Zanzibar (dove non credo che arriverò prima del 26), che un po’ di mare proprio me lo sono meritato.

BUON NATALE.

Friday, December 22, 2006

Libri vacanzieri

Ecco, adesso non avete scuse: siete in vacanza e potete leggere.

I miei consigli:

Questo me l’ha dato da leggere il mio capo quando gli ho detto che avrei mandato l’application per il DPKO (UN Department for PeaceKeeping Operation) secondo me con l’intento di dissuadermi...

Io integerrima continuo per la mia strada... il libro è però una lettura abbastanza piacevole e che soprattutto dà l’idea degli indescrivibili disastri che alcune delle missioni di pace ONU sono stati (somalia, rwanda, liberia etc).

Anche detto: quello che vorrei DAVVERO fare da grande.

Lei scrive meravigliosamente di cose complicate e affascinanti di cui nessuno parla. Lette le prime venti pagine, l’unico desiderio è di prendere il primo aereo per Asmara, la città sopra le nuvole...

L’ultimo è un consiglio speciale per la mia amica Adele, che sono sicura impazzirà per questo e non ne potrà più fare a meno:

Barnes, W
WHERE THE LION ROARS: An 1890 African Colonial Cookery Book
One of Africa's first English-language cookery books, newly released over a century after its first publication. As well as offering over 500 recipes for southern African delicacies (including sticky, ginger-flavoured
melon preserve; Malay-inspired aromatic pickled fish, and spicy soetkoek biscuits) Mrs Barnes also provided her readers with instructions on making a traditional African polished-cow-dung floor; how to treat snake-bite and, the best method for discouraging mosquitoes. A fascinating book, illustrating the process that early British settlers underwent as they adapted to life in an unfamiliar environment on the other side of the world.

Thursday, December 21, 2006

Erode. Acholibur IDPs camp

Mio padre mi chiama "Erode", perchè di solito non mi piacciono i bambini e tento sempre di tenerli il più lontano possibile.. (ad onor del vero, ci tengo a precisare che non sono tanto i bambini a darmi fastidio, quanto i genitori -come catergoria intrinsicamente rompicoglioni- a farmi venire le bolle).

Comunque, persino Erode si è commosso.
E c'è da dire che -in fondo- loro sono pure quelli che soffrono di meno, e si limitano a giocare nudi in mezzo alla spazzatura come farebbero tutti gli altri bimbi...










Sunday, December 17, 2006

natale

Io lo so che voi farete della beneficenza, questo Natale.
Mi permetto dunque di darvi dei consigli.
Anzi, un consiglio solo, che è questo: andate a visitare questo sito www.kiva.org

Ci troverete una lista di micro-progetti imprenditoriali che cercano un prestito.
Ci trovate Silvia, Joyce, Eric e moltissimi altri da quasi tutte le parti del mondo, che cercano uno sponsor per aprire o espandere la loro attività.
Tramite il sito, molte persone possono contribuire a raccogliere la somma che gli serve, donando 20-25 dollari alla volta.
20 dollari sono niente (e su, il cambio in euro li fa diventare proprio due lire) per le vostre tasche, ma una piccola fortuna se prestati ad una sarta in Equador, o a una parrucchiera in Togo.

Si chiama microcredito.
La persona che lo ha inventato, più di vent'anni fa, si chiama Mohammad Yunus ed ha vinto quest'anno il Nobel per la Pace.
Ed è uno dei miei idoli.
Perchè funziona, e ci scommetto di mio che tutti i vostri prestiti vi saranno restituiti.

Friday, December 15, 2006

sciopero

Niente più commenti ai miei interessantissimi post?
e allora io SCIOPERO.
e non vi racconto più niente fino a che qualcuno non si fa vivo.
che sennò mi sembra che parlo al MURO.
Ecco.

Tuesday, December 12, 2006

facce


Dopo quasi una settimana dal mio ritorno, sono le facce della gente che non riesco proprio a dimenticare...












Sunday, December 10, 2006

Gambella

La sera del mio primo giorno a Dadaab tremavo come una foglia in mezzo al deserto (e non è una metafora, il campo è davvero in mezzo al deserto e ci fa un caldo fottuto) con la febbre alta.

Il secondo giorno c’è stata la miracolosa guarigione (se qualcuno mi ha pensato in questi giorni, lo ringrazio) e dunque me ne sono potuta andare un po’ più liberamente in giro senza dover far scomodare la scorta speciale per riportarmi al campo-base.

Così mi sono data a fare le interviste per le quali ero venuta, ed ho passato la giornata in compagnia dei simpatici giovani del campo (d’altronde io scrivo una cosa che si intitola “Youth in forced migration”), per capire un po’ che cosa gli passa per la testa, se è vero che la vita del campo crea solo disadattati e gente buona solo per essere reclutata nelle milizie armate del proprio paese di origine (in questo caso le milizie delle Corti Islamiche).

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Vi racconto un’altra storia.

Una delle cose che mi ha sorpreso appena arrivata a Dadaab è che –fuori dal compound di CARE- in mezzo al deserto ed agli sterpi- c’è un fichissimo campo da pallacanestro in cemento, con i canestri regolamentari e tutto.

Qualche anno fa nel campo di Dadaab arrivarono una quarantina di ragazzi dall’Etiopia. Tutti di etnia Gambella. Per chi non lo sapesse (e mi sa che siete in molti) i Gambella sono una popolazione nomade e guerriera che vive nelle regioni meridionali dell’Etiopia, il cui tratto distintivo –specie per gli uomini- è di essere in genere alti attorno ai due metri, grossi, nerissimi e piuttosto attaccabrighe.

Il maggiore problema della vita nei campi se non sei vecchio o malato ma giovane ed irrequieto è che non c’è niente da fare. Nessun posto dove andare che non sia il campo stesso, nessun lavoro da fare, e sì, puoi andare a scuola, ma se sei un sedicenne Gambella, completamente analfabeta ma alto un metro e novanta, di certo non hai nessuna intenzione di andarti a sedere in prima elementare con i bambini di sei anni.

Come chi è cresciuto nei paesi di provincia dell’agro calabro (ma anche delle maremma toscana) sa benissimo, in genere la risposta adolescenziale alla “sana” ma noiosissima vita in campagna è più o meno riassumibile in “droga&alcolismo”.

I Gambella a Dadaab non sono stati da meno.

Già che c’erano, visto che erano anche i più grossi e i più cattivi di tutti, si erano anche messi a fare scorrerie per gli altri campi, fino a controllare parte del traffico di khat che alimenta quasi completamente l’economia locale.

A quel tempo lavorava a CARE un ragazzo danese (mmm della nazionalità non sono troppo sicura, cmq nordica) che, oltre ad essere evidentemente un bravo cooperante, era anche l’unica altra persona in tutto il campo alta quanto i Gambella. Prima di intraprendere la strada verso il nord del kenya, faceva il giocatore di pallacanestro.

Così un giorno gli è venuto in mente di insegnare la pallacanestro ai Gambella. Che si sono ovviamente rivelati “nati” per lo sport, e si sono appassionati così tanto a questa nuova cosa, e ne hanno tratto così tanto orgoglio personale, che hanno formato una vera e propria squadra.Si sono messi ad organizzare tornei. Il preferito è “bianchi contro neri” in cui loro sfidano il personale delle ONG e puntualmente “li fanno neri”.

Adesso hanno le divise, i palloni e si allenano un sacco di volte alla settimana.
E sono fortissimi.
Tra l’altro, già che c’erano, alcuni di loro sono persino tornati a scuola.
(se non altro per imparare a contare i punti).
Ed hanno smesso di passare i loro pomeriggi a masticare il khat.
Ed un giorno magari diventano pure famosi.

Thursday, December 07, 2006

Giorno Primo 27-11-06

Il mio avventuroso viaggio verso il campo di rifugiati somali di Dadaab comincia alle tre e mezza del mattino con un’infezione intestinale di quelle che solo all’equatore credo, che mi tiene abbracciata alla tazza del cesso fino verso le cinque, ora in cui mi faccio forza e intrepida prendo il taxi verso l’aereoporto.La paura del mio primo volo su un aereo da 11 posti (molto piccolo, in verità, ma mica poi tanto scomodo) passa dunque assolutamente in secondo piano rispetto al fatto di mantenermi in vita tentando di bere acqua e zucchero.Meno male che l’arrivo è super organizzato, e ci sono già le macchine ed i ragazzi dell’UNHCR che ci sono venuti a prendere ed io posso con nonchalance fare finta di essere ancora in me, quando invece di quella mattina ho solo vaghi ricordi.

Dadaab non è un campo solo, ma è fatto di tre campi ad una certa distanza l’uno dall’altro: Ifo, Hagadera e Daghaley. In tutto ci vivono circa 160mila persone. Tipo una cittadina emiliana, per intenderci.

La maggior parte vive in tende e capanne come queste qui sotto, ma molti altri si sono costruiti delle specie di casupole con un po’ di mattoni e le lamiere come tetti.

Ora dirò una cosa impopolare ed anche antintuitiva, soprattutto se date un’occhiata alle foto: non se la passano malissimo. Nel senso: mangiano, e non ci sono epidemie (almeno non tanto spesso) e qualcuno va anche a scuola, anzi, a scuola ci vanno in molti, forse molti di più che in altre parti rurali del Kenya e –per certo- più di quanti ne abbiano l’opportunità in Somalia.Certo non è per niente una vita invidiabile, soprattutto se in più ci si mette la cattiva sorte, e ci si ammala, o si nasce malati, o si è vecchi o non si ha nessuno che si prenda cura di noi.

Vi racconto una storia.

Carmela (sì, Carmela, perchè dopotutto, anche se facciamo di tutto per non ricordarcelo, la Somalia è stata una colonia italiana per quasi 50 anni ed ancora qualcuno ha un nome italiano) ha 45 anni e vive ad Hagadera.Vive lì dal 1992, da quando è scappata da Mogadiscio a causa della guerra civile. Il marito è morto e lei è rimasta sola a vivere con due figli. Vivere da soli a Dadaab non è affatto facile. Ci sono moltissime cose da fare e a cui pensare alle quali una persona sola non riesce a stare dietro. Innanzitutto ci sono le distribuzioni. Ce ne sono di vario genere ed in luoghi e momenti diversi. C’è la distribuzione quotidiana (o quasi) delle razioni del World Food Programme.

Poi ci sono le distribuzioni speciali: mentre io ero lì l’oggetto del desiderio del momento erano i teli di plastica per coprire le capanne dalle pioggie torrenziali (eh, voi ci scherzate, col climate change, ma lì si è davvero allagato il deserto) e però per averne uno bisognava passare in fila quasi tutta una mattinata.

Insomma, non è facile fare tutte le file, e poi andare a prendere la legna per il fuoco e l’acqua per cuocere etc etc se si è da soli.

Incontro Carmela perchè è lei a chiedermi “un’intervista”. Le persone che vivono nei campi sono piuttosto abituate ai giornalisti, ed hanno ormai imparato ad usarli a loro vantaggio.Carmela ha una figlia di circa 12 anni, che si chiama Esterline e che è completamente paralizzata a causa della polio contratta quando era piccolissima. Esterline non si può muovere, e Carmela non può rimanere tutto il giorno a casa a prendersene cura, ed in più non le può dare le cure e l’assistenza (o anche la riabilitazione) di cui avrebbe bisogno.

Questa storia ha un lieto fine: Carmela mi racconta del giorno che ha letto il suo nome nella bacheca in cui l’UNHCR affigge i nomi di quelli che potranno usufruire delle procedure di asilo ed inserimento in un altro paese.

Mi racconta tutte queste cose perchè spera che così i tempi per ottenere tutti i permessi si facciano più brevi.

Poi mi dice una cosa commovente, che è la ragione per la quale scrivo questo post, e che è “bene, ora voglio che tu mi faccia una foto e che tu non ti dimentichi di me”.

Io non me la sono dimenticata. E questa è la sua foto.

E questa è la morale, pensatela come se uscisse dalla sua bocca. Non è detto che tutti i rifugiati debbano passare anni ed anni nei campi. Soprattutto se appartengono a categorie particolarmente vulnerabili, o se la loro salute è a rischio.Esiste la possibilità di accedere a dei programmi di “reinsediamento” che prevedono il trasferimento dei rifugiati nei paesi occidentali che si dichiarino disponibili.

Carmela andrà probabilmente in Canada, o in Australia o, se è fortunata, negli Stati Uniti.

Mi piacerebbe per una volta che il nostro paese smettesse di essere vigliacco e provinciale e proprio l’italietta rimasta ancora a faccetta nera, e che si assumesse le sue responsabilità per quello che è accaduto ed accade in Somalia, ed ai suoi abitanti. Mi piacerebbe poter ospitare Carmela, ed offrirle un posto migliore in cui vivere.

Il mio primo giorno a Dadaab finisce con la scena di me che cammino in mezzo alle tende e vomito negli angoli circa ogni mezz’ora (con sommo divertimento delle orde di bambini che ci seguono) e penso che morirò.

Alla fine l’UNHCR si è impietosita, e mi ha mandato indietro con una scorta militare speciale anti-vomito. (Per muoversi tra i campi, c’è bisogno di andare in convogli con la scorta armata, e le scorte si muovono solo tre volte al giorno ad orari fissi, quindi in questo caso hanno dovuto appunto trovare una scorta speciale per visitatore affetto da morbo).

Tuesday, December 05, 2006

viva

questa e' una breve comunicazione da un internet caffe' a Kampala (la capitale dell'Uganda).
E' per dire che sono viva e che sto bene e che ho visto tantissime cose che non mi basteranno mesi a raccontarle tutte. (e voi siete fortunati che avro' un blog sempre molto interessante)
domani pomeriggio torno a Nairobi e da li' vi racconto.