Il mio avventuroso viaggio verso il campo di rifugiati somali di Dadaab comincia alle tre e mezza del mattino con un’infezione intestinale di quelle che solo all’equatore credo, che mi tiene abbracciata alla tazza del cesso fino verso le cinque, ora in cui mi faccio forza e intrepida prendo il taxi verso l’aereoporto.La paura del mio primo volo su un aereo da 11 posti (molto piccolo, in verità, ma mica poi tanto scomodo) passa dunque assolutamente in secondo piano rispetto al fatto di mantenermi in vita tentando di bere acqua e zucchero.Meno male che l’arrivo è super organizzato, e ci sono già le macchine ed i ragazzi dell’UNHCR che ci sono venuti a prendere ed io posso con nonchalance fare finta di essere ancora in me, quando invece di quella mattina ho solo vaghi ricordi.
Dadaab non è un campo solo, ma è fatto di tre campi ad una certa distanza l’uno dall’altro: Ifo, Hagadera e Daghaley. In tutto ci vivono circa 160mila persone. Tipo una cittadina emiliana, per intenderci.
La maggior parte vive in tende e capanne come queste qui sotto, ma molti altri si sono costruiti delle specie di casupole con un po’ di mattoni e le lamiere come tetti.
Ora dirò una cosa impopolare ed anche antintuitiva, soprattutto se date un’occhiata alle foto: non se la passano malissimo. Nel senso: mangiano, e non ci sono epidemie (almeno non tanto spesso) e qualcuno va anche a scuola, anzi, a scuola ci vanno in molti, forse molti di più che in altre parti rurali del Kenya e –per certo- più di quanti ne abbiano l’opportunità in Somalia.Certo non è per niente una vita invidiabile, soprattutto se in più ci si mette la cattiva sorte, e ci si ammala, o si nasce malati, o si è vecchi o non si ha nessuno che si prenda cura di noi.
Vi racconto una storia.
Carmela (sì, Carmela, perchè dopotutto, anche se facciamo di tutto per non ricordarcelo, la Somalia è stata una colonia italiana per quasi 50 anni ed ancora qualcuno ha un nome italiano) ha 45 anni e vive ad Hagadera.Vive lì dal 1992, da quando è scappata da Mogadiscio a causa della guerra civile. Il marito è morto e lei è rimasta sola a vivere con due figli. Vivere da soli a Dadaab non è affatto facile. Ci sono moltissime cose da fare e a cui pensare alle quali una persona sola non riesce a stare dietro. Innanzitutto ci sono le distribuzioni. Ce ne sono di vario genere ed in luoghi e momenti diversi. C’è la distribuzione quotidiana (o quasi) delle razioni del World Food Programme.
Poi ci sono le distribuzioni speciali: mentre io ero lì l’oggetto del desiderio del momento erano i teli di plastica per coprire le capanne dalle pioggie torrenziali (eh, voi ci scherzate, col climate change, ma lì si è davvero allagato il deserto) e però per averne uno bisognava passare in fila quasi tutta una mattinata.
Insomma, non è facile fare tutte le file, e poi andare a prendere la legna per il fuoco e l’acqua per cuocere etc etc se si è da soli.
Incontro Carmela perchè è lei a chiedermi “un’intervista”. Le persone che vivono nei campi sono piuttosto abituate ai giornalisti, ed hanno ormai imparato ad usarli a loro vantaggio.Carmela ha una figlia di circa 12 anni, che si chiama Esterline e che è completamente paralizzata a causa della polio contratta quando era piccolissima. Esterline non si può muovere, e Carmela non può rimanere tutto il giorno a casa a prendersene cura, ed in più non le può dare le cure e l’assistenza (o anche la riabilitazione) di cui avrebbe bisogno.
Questa storia ha un lieto fine: Carmela mi racconta del giorno che ha letto il suo nome nella bacheca in cui l’UNHCR affigge i nomi di quelli che potranno usufruire delle procedure di asilo ed inserimento in un altro paese.
Mi racconta tutte queste cose perchè spera che così i tempi per ottenere tutti i permessi si facciano più brevi.
Poi mi dice una cosa commovente, che è la ragione per la quale scrivo questo post, e che è “bene, ora voglio che tu mi faccia una foto e che tu non ti dimentichi di me”.
Io non me la sono dimenticata. E questa è la sua foto.
E questa è la morale, pensatela come se uscisse dalla sua bocca. Non è detto che tutti i rifugiati debbano passare anni ed anni nei campi. Soprattutto se appartengono a categorie particolarmente vulnerabili, o se la loro salute è a rischio.Esiste la possibilità di accedere a dei programmi di “reinsediamento” che prevedono il trasferimento dei rifugiati nei paesi occidentali che si dichiarino disponibili.
Carmela andrà probabilmente in Canada, o in Australia o, se è fortunata, negli Stati Uniti.
Mi piacerebbe per una volta che il nostro paese smettesse di essere vigliacco e provinciale e proprio l’italietta rimasta ancora a faccetta nera, e che si assumesse le sue responsabilità per quello che è accaduto ed accade in Somalia, ed ai suoi abitanti. Mi piacerebbe poter ospitare Carmela, ed offrirle un posto migliore in cui vivere.
Il mio primo giorno a Dadaab finisce con la scena di me che cammino in mezzo alle tende e vomito negli angoli circa ogni mezz’ora (con sommo divertimento delle orde di bambini che ci seguono) e penso che morirò.
Alla fine l’UNHCR si è impietosita, e mi ha mandato indietro con una scorta militare speciale anti-vomito. (Per muoversi tra i campi, c’è bisogno di andare in convogli con la scorta armata, e le scorte si muovono solo tre volte al giorno ad orari fissi, quindi in questo caso hanno dovuto appunto trovare una scorta speciale per visitatore affetto da morbo).