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Wednesday, April 11, 2007

Pink Hippos


La mia pasqua è trascorsa tra scimmie ed ippopotami, piuttosto felice.

Abbiamo affittato una macchina con incluso autista e ci siamo diretti verso il lago Vittoria, con tutto un bel tragitto in mente... INCAUTI wazungu! Che fanno il conto dei chilometri come se si andasse in gita a bracciano e sottovalutano lo stato penoso delle strade kenyane, che per fare quei maledetti 350 km ci abbiamo messo più di 10 ore!

Ma vabbè, nonostante i chili di polvere e la fatica, siamo arrivati, abbiamo fatto l’escursione pasquale nella foresta tropicale (vedi foto) e poi ci siamo goduti una giornata di meritato riposo in piscina in un posto fantastico sul lago vittoria.
Ci siamo persino alzati tutti nottetempo, svegliati da versi animaleschi mai uditi prima, convinti che avremmo trovato gli ippopotami fuori dalla tenda, e scoprendo invece che era solo un’orgia dei cani da guardia...

Il lago però è molto bello ed esotico, con un sacco di fiori e insetti assurdi, e distese e distese di giacinto d’acqua, che sarà pure una catastrofe ecologica, nel senso che è proliferato così tanto che sono morti i pesci e si sono fermati i traghetti, ma è pur sempre una pianta bellissima con dei fiori viola fantastici..

Sono stata bene, ed ho persino mangiato l’agnello alla brace (che –bella forza- è il piatto nazionale kenyano) il giorno di pasquetta.

E i miei due appassionati lettori? Cosa hanno fatto?

Sunday, January 28, 2007

Kibera

così, giusto per darvi un'idea di dove vive metà della popolazione di questa città (2.5 milioni su 4).


Friday, January 26, 2007

slum marathon


Ieri sono stata a vedere questa cosa grandiosa organizzata dai Comboniani a Korogocho. Ci ho scritto un'articolo che è pubblicato qui:

Marathon marks end of Social Forum

considerazioni a parte:
a me solitamente i preti non piacciono. Però, magari, se li sbattessimo tutti a Korogocho, Kibera e Mathare, qualcosa di utile potrebbero fare persino loro.

Tuesday, January 23, 2007

Di Topshop, e dell’estetica dello sviluppo

Voglio il frappuccino. Voglio andare una settimana in vacanza ad Oxford Street e fare shopping in quei negozi ENORMI con dentro cose che non ho l’immaginazione per desiderare e bisogna che le veda per scoprire di non poterne fare a meno...
Voglio comprare le mutande e poter scegliere tra 40 differenti modelli e fantasie.
Voglio mangiare le caramelle gommose mentre mi faccio le unghie e potermi fare le unghie mentre mi provo i vestiti ed andare su e giù e su e giù per le scale mobili di Topshop.

Ecco.
Ho la crisi del quarto mese. Una specie di astinenza da occidente che ti prende all’improvviso e si manifesta in desideri inspiegabili ed attacchi di bieco consumismo ai quali non si può dare soddisfazione. E non che Nairobi non sia, in qualche modo, un posto occidentale. E’ che gli manca –perdonatemi se sembro cinica, ma il cinismo è il pane della sopravvivenza da queste parti- lo sparkling, lo scintillio....
Qui è tutto generalmente polveroso, generalmente maleodorante, generalmente rotto, in cattivo stato, un po’ cadente.. La maggior parte delle persone ha le scarpe bucate, e molti hanno anche i vestiti a brandelli. Un sacco di persone puzzano perchè non hanno l’acqua per lavarsi.

Ecco. Non avevo mai pensato prima d’ora allo sviluppo economico come qualcosa che avesse a che fare con l’estetica e con i sensi. Mi ero sbagliata, che la povertà ha un odore brutto, e la privazione sa di acido e la recessione economica è dannatamente polverosa e cadente. Credo che sia questa, umanamente, la parte di esperienza più drammatica del vivere in un posto povero, in cui la gente fa fatica ad avere l’essenziale e dunque tutto il resto passa –anche giustamente- in secondo piano.

Io – che ho passato la vita a passeggiare per uno dei posti più belli del mondo senza rendermene conto- faccio fatica a difendermi dagli attacchi che la povertà fa allo sguardo, dalle pile di immondizia con i bambini sopra a caccia di cibo, dagli avvoltoi che si mangiano le carcasse degli animali vicino all’aereoporto.

Non so, forse topshop ha una funzione sociale. Come la televisione spazzatura. Nulla di brutto può succederti là dentro. Nulla di realmente hurting, nulla di così terribilmente vero e ineluttabile ed ingiusto come le cose che ogni tanto vedo e che ogni tanto vorrebbero invece il mondo semplice, il mondo in cui la cosa peggiore che può capitare è un unghia scheggiata, una frangia fuori posto, un tacco rotto.

Wednesday, January 10, 2007

No sugar, No money

Allora, ecco che –persino qui nell’enclave per expats in cui vivo e in cui sono rinchiusa da giorni perchè non riesco ad abbandonare l’ufficio- ci si accorge che questo, dopotutto, è proprio il “terzo mondo”..

E questo non vuol dire mica solo i bambini malnutriti con le mosche, ma tutta una serie di fenomeni assurdi che hanno una spiegazione solo in un’economia che purtroppo non si regge in piedi se non puntellata, ed a volte i picchetti cedono...lasciate che vi illustri:

Caso primo: è finito lo zucchero. Sì, capito bene. Non c’è più lo zucchero in tutto il Kenya. Noi abbiamo chiuso a chiave nel cassettino il mezzo barattolo che ci è rimasto, e guardiamo speranzose a tempi migliori.

La cosa va avanti circa da Natale. Nel nostro supermercato strafico, dove vendono il gorgonzola, il prosciutto e il pesto, gli scaffali dello zucchero sono rimasti preoccupantemente vuoti. Iniziale sconcerto. Sconcerto crescente quando hanno continuato ad essere vuoti, per giorni e settimane. Abbiamo indagato: sembra che l’unica fabbrica kenyana che produce zucchero abbia deciso di fermare la produzione fino a che non risalgono i prezzi. Nel frattempo, visto che è l’unica, e che il Kenya non si può permettere di importare lo zucchero (per non parlare delle ere geologiche che ci vorrebbero) e visto che il governo non ci può fare niente perchè qui sì che è “il libero mercato” (thanks, world bank), vita amarissima e caffè nero (bleah).

Caso secondo: sono finiti i soldi. Non c’è più un solo ATM (Bankomat) funzionante in tutta Nairobi. I negozi non hanno più soldi per il resto, i genitori non sanno come pagare la retta della scuola dei figli, io ho 50 euro in casa (sempre nel cassettino dello zucchero) e quando finiscono chissà. Anche perchè quella kenyana è una economia sostanzialmente “cash”, in cui tutto si compra e si scambia alla vecchia maniera, e cioè con le banconote.
Ora, non è che le banconote siano finite. E’ che sono rimaste imprigionate.
Sono tre giorni che la polizia si rifiuta di fare le scorte portavalori alle banche ed ai negozianti. Il motivo è che le rapine sono tante e che gli standard si sicurezza sono bassi, e insomma, di poliziotti ne muoiono un sacco. Così sono scesi in sciopero. Che però non è che abbia molte speranze, visto il fatto che il vero problema è la sicurezza di questa città (che loro dovrebbero garantire, n.b) e che una pistola costa 10 euro a tre incroci da casa mia.

Insomma, tempi magri.

Povero Kenya.

Tuesday, January 09, 2007

eh??

Scusate, esco un secondo dal mio isolamento pro-scadenza-di-lavoro incombente per indignarmi un attimo sugli aerei americani che bombardano i villaggi somali.
Ora, io non so se vi rendete conto di cosa esattamente sia un villaggio nel sud della somalia, ma perlopiù è costituito da un centinaio di capanne e qualche casupola di mattoni rossi malcotti...
ora, già che i resti delle milizie delle corti islamiche si siano ridotti a nascondersi a Afmadow, la dice lunga sulla loro potenziale minaccia, ma vabbè, facciamo che vogliamo essere paranoici...
ma BOMBARDARE un villaggio? un posto dove se soffia il vento troppo forte già muoiono in dieci perchè stanno tutti appiccicati e non sanno dove ripararsi?
come diamine fa un C130 a "riconoscere il target" tra 100 identiche capanne? li avranno ammazzati tutti.
Barbari incapaci.

Thursday, December 21, 2006

Erode. Acholibur IDPs camp

Mio padre mi chiama "Erode", perchè di solito non mi piacciono i bambini e tento sempre di tenerli il più lontano possibile.. (ad onor del vero, ci tengo a precisare che non sono tanto i bambini a darmi fastidio, quanto i genitori -come catergoria intrinsicamente rompicoglioni- a farmi venire le bolle).

Comunque, persino Erode si è commosso.
E c'è da dire che -in fondo- loro sono pure quelli che soffrono di meno, e si limitano a giocare nudi in mezzo alla spazzatura come farebbero tutti gli altri bimbi...










Tuesday, December 12, 2006

facce


Dopo quasi una settimana dal mio ritorno, sono le facce della gente che non riesco proprio a dimenticare...












Sunday, December 10, 2006

Gambella

La sera del mio primo giorno a Dadaab tremavo come una foglia in mezzo al deserto (e non è una metafora, il campo è davvero in mezzo al deserto e ci fa un caldo fottuto) con la febbre alta.

Il secondo giorno c’è stata la miracolosa guarigione (se qualcuno mi ha pensato in questi giorni, lo ringrazio) e dunque me ne sono potuta andare un po’ più liberamente in giro senza dover far scomodare la scorta speciale per riportarmi al campo-base.

Così mi sono data a fare le interviste per le quali ero venuta, ed ho passato la giornata in compagnia dei simpatici giovani del campo (d’altronde io scrivo una cosa che si intitola “Youth in forced migration”), per capire un po’ che cosa gli passa per la testa, se è vero che la vita del campo crea solo disadattati e gente buona solo per essere reclutata nelle milizie armate del proprio paese di origine (in questo caso le milizie delle Corti Islamiche).

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Vi racconto un’altra storia.

Una delle cose che mi ha sorpreso appena arrivata a Dadaab è che –fuori dal compound di CARE- in mezzo al deserto ed agli sterpi- c’è un fichissimo campo da pallacanestro in cemento, con i canestri regolamentari e tutto.

Qualche anno fa nel campo di Dadaab arrivarono una quarantina di ragazzi dall’Etiopia. Tutti di etnia Gambella. Per chi non lo sapesse (e mi sa che siete in molti) i Gambella sono una popolazione nomade e guerriera che vive nelle regioni meridionali dell’Etiopia, il cui tratto distintivo –specie per gli uomini- è di essere in genere alti attorno ai due metri, grossi, nerissimi e piuttosto attaccabrighe.

Il maggiore problema della vita nei campi se non sei vecchio o malato ma giovane ed irrequieto è che non c’è niente da fare. Nessun posto dove andare che non sia il campo stesso, nessun lavoro da fare, e sì, puoi andare a scuola, ma se sei un sedicenne Gambella, completamente analfabeta ma alto un metro e novanta, di certo non hai nessuna intenzione di andarti a sedere in prima elementare con i bambini di sei anni.

Come chi è cresciuto nei paesi di provincia dell’agro calabro (ma anche delle maremma toscana) sa benissimo, in genere la risposta adolescenziale alla “sana” ma noiosissima vita in campagna è più o meno riassumibile in “droga&alcolismo”.

I Gambella a Dadaab non sono stati da meno.

Già che c’erano, visto che erano anche i più grossi e i più cattivi di tutti, si erano anche messi a fare scorrerie per gli altri campi, fino a controllare parte del traffico di khat che alimenta quasi completamente l’economia locale.

A quel tempo lavorava a CARE un ragazzo danese (mmm della nazionalità non sono troppo sicura, cmq nordica) che, oltre ad essere evidentemente un bravo cooperante, era anche l’unica altra persona in tutto il campo alta quanto i Gambella. Prima di intraprendere la strada verso il nord del kenya, faceva il giocatore di pallacanestro.

Così un giorno gli è venuto in mente di insegnare la pallacanestro ai Gambella. Che si sono ovviamente rivelati “nati” per lo sport, e si sono appassionati così tanto a questa nuova cosa, e ne hanno tratto così tanto orgoglio personale, che hanno formato una vera e propria squadra.Si sono messi ad organizzare tornei. Il preferito è “bianchi contro neri” in cui loro sfidano il personale delle ONG e puntualmente “li fanno neri”.

Adesso hanno le divise, i palloni e si allenano un sacco di volte alla settimana.
E sono fortissimi.
Tra l’altro, già che c’erano, alcuni di loro sono persino tornati a scuola.
(se non altro per imparare a contare i punti).
Ed hanno smesso di passare i loro pomeriggi a masticare il khat.
Ed un giorno magari diventano pure famosi.

Thursday, December 07, 2006

Giorno Primo 27-11-06

Il mio avventuroso viaggio verso il campo di rifugiati somali di Dadaab comincia alle tre e mezza del mattino con un’infezione intestinale di quelle che solo all’equatore credo, che mi tiene abbracciata alla tazza del cesso fino verso le cinque, ora in cui mi faccio forza e intrepida prendo il taxi verso l’aereoporto.La paura del mio primo volo su un aereo da 11 posti (molto piccolo, in verità, ma mica poi tanto scomodo) passa dunque assolutamente in secondo piano rispetto al fatto di mantenermi in vita tentando di bere acqua e zucchero.Meno male che l’arrivo è super organizzato, e ci sono già le macchine ed i ragazzi dell’UNHCR che ci sono venuti a prendere ed io posso con nonchalance fare finta di essere ancora in me, quando invece di quella mattina ho solo vaghi ricordi.

Dadaab non è un campo solo, ma è fatto di tre campi ad una certa distanza l’uno dall’altro: Ifo, Hagadera e Daghaley. In tutto ci vivono circa 160mila persone. Tipo una cittadina emiliana, per intenderci.

La maggior parte vive in tende e capanne come queste qui sotto, ma molti altri si sono costruiti delle specie di casupole con un po’ di mattoni e le lamiere come tetti.

Ora dirò una cosa impopolare ed anche antintuitiva, soprattutto se date un’occhiata alle foto: non se la passano malissimo. Nel senso: mangiano, e non ci sono epidemie (almeno non tanto spesso) e qualcuno va anche a scuola, anzi, a scuola ci vanno in molti, forse molti di più che in altre parti rurali del Kenya e –per certo- più di quanti ne abbiano l’opportunità in Somalia.Certo non è per niente una vita invidiabile, soprattutto se in più ci si mette la cattiva sorte, e ci si ammala, o si nasce malati, o si è vecchi o non si ha nessuno che si prenda cura di noi.

Vi racconto una storia.

Carmela (sì, Carmela, perchè dopotutto, anche se facciamo di tutto per non ricordarcelo, la Somalia è stata una colonia italiana per quasi 50 anni ed ancora qualcuno ha un nome italiano) ha 45 anni e vive ad Hagadera.Vive lì dal 1992, da quando è scappata da Mogadiscio a causa della guerra civile. Il marito è morto e lei è rimasta sola a vivere con due figli. Vivere da soli a Dadaab non è affatto facile. Ci sono moltissime cose da fare e a cui pensare alle quali una persona sola non riesce a stare dietro. Innanzitutto ci sono le distribuzioni. Ce ne sono di vario genere ed in luoghi e momenti diversi. C’è la distribuzione quotidiana (o quasi) delle razioni del World Food Programme.

Poi ci sono le distribuzioni speciali: mentre io ero lì l’oggetto del desiderio del momento erano i teli di plastica per coprire le capanne dalle pioggie torrenziali (eh, voi ci scherzate, col climate change, ma lì si è davvero allagato il deserto) e però per averne uno bisognava passare in fila quasi tutta una mattinata.

Insomma, non è facile fare tutte le file, e poi andare a prendere la legna per il fuoco e l’acqua per cuocere etc etc se si è da soli.

Incontro Carmela perchè è lei a chiedermi “un’intervista”. Le persone che vivono nei campi sono piuttosto abituate ai giornalisti, ed hanno ormai imparato ad usarli a loro vantaggio.Carmela ha una figlia di circa 12 anni, che si chiama Esterline e che è completamente paralizzata a causa della polio contratta quando era piccolissima. Esterline non si può muovere, e Carmela non può rimanere tutto il giorno a casa a prendersene cura, ed in più non le può dare le cure e l’assistenza (o anche la riabilitazione) di cui avrebbe bisogno.

Questa storia ha un lieto fine: Carmela mi racconta del giorno che ha letto il suo nome nella bacheca in cui l’UNHCR affigge i nomi di quelli che potranno usufruire delle procedure di asilo ed inserimento in un altro paese.

Mi racconta tutte queste cose perchè spera che così i tempi per ottenere tutti i permessi si facciano più brevi.

Poi mi dice una cosa commovente, che è la ragione per la quale scrivo questo post, e che è “bene, ora voglio che tu mi faccia una foto e che tu non ti dimentichi di me”.

Io non me la sono dimenticata. E questa è la sua foto.

E questa è la morale, pensatela come se uscisse dalla sua bocca. Non è detto che tutti i rifugiati debbano passare anni ed anni nei campi. Soprattutto se appartengono a categorie particolarmente vulnerabili, o se la loro salute è a rischio.Esiste la possibilità di accedere a dei programmi di “reinsediamento” che prevedono il trasferimento dei rifugiati nei paesi occidentali che si dichiarino disponibili.

Carmela andrà probabilmente in Canada, o in Australia o, se è fortunata, negli Stati Uniti.

Mi piacerebbe per una volta che il nostro paese smettesse di essere vigliacco e provinciale e proprio l’italietta rimasta ancora a faccetta nera, e che si assumesse le sue responsabilità per quello che è accaduto ed accade in Somalia, ed ai suoi abitanti. Mi piacerebbe poter ospitare Carmela, ed offrirle un posto migliore in cui vivere.

Il mio primo giorno a Dadaab finisce con la scena di me che cammino in mezzo alle tende e vomito negli angoli circa ogni mezz’ora (con sommo divertimento delle orde di bambini che ci seguono) e penso che morirò.

Alla fine l’UNHCR si è impietosita, e mi ha mandato indietro con una scorta militare speciale anti-vomito. (Per muoversi tra i campi, c’è bisogno di andare in convogli con la scorta armata, e le scorte si muovono solo tre volte al giorno ad orari fissi, quindi in questo caso hanno dovuto appunto trovare una scorta speciale per visitatore affetto da morbo).

Sunday, November 19, 2006

references

Qualora ci fosse qualcuno là fuori interessato un po' di più a quello che andrò a vedere, vi metto alcuni link su quello che succede a Dadaab.

UNHCR- storie di giovani rifugiati


Ninemillion.org

Danish Refugee Council programme in Dadaab

a poi volevo farvi vedere questa foto, che ritrae i designer della Nike che sono andati a Dadaab a disegnare le uniformi della squadra femminile di pallavolo del campo.
(founded by right to play)


Wednesday, November 08, 2006

Le cose che vorrei vedere


Le cose che vorrei vedere sono tipo questa qui.

L'ho trovata nella galleria fotografica dell'IRIN in mezzo a mille altre di bambini malnutriti scheletrici e con le mosche.. è stata scattata in un campo per sfollati nel nord dell'Uganda.

A causa del conflitto tra le forze governative e LRA (Lord's Resistance Army) il 90% della popolazione (circa due milioni di persone), in prevalenza di etnia Acholi, ha dovuto abbandonare la propria casa e rifugiarsi nei campi aperti dalle organizzazioni internazionali.

Vi lascio immaginare che la vita in un campo profughi non è il massimo dell'allegria...
Tanto tempo fa lessi un libro bellissimo di Elsa Morante che parlava appunto di questo, negli anni quaranta, in italia. (si intitola la Storia, è un masterpiece della letteratura italiana contemporanea, quindi chi non l'ha letto si senta in colpa e lo vada a comprare)
Per chi ha letto il libro invece, questa è la foto del mio Useppe ugandese.
Se ne sentiva la mancanza, credetemi, da queste parti dove non raccontiamo mai storie a lieto fine.

Thursday, October 19, 2006

kui

Ora vi racconto la storia di Kui, la mia amica kenyana che mi ha adottata benchè io sia bianca pallidissima ed è un sacco gentile con me.

Questa storia è anche per provare un po’ a spiegare come ci si sente alle volte ad essere europei in Africa, e quanto pesa –non tanto il colore della pelle, anche se alle volte vorrei avere della vernice nera a portata di mano- quanto quello che noi europei facciamo e decidiamo nel comodo delle nostre case e dei nostri parlamenti senza più di tanto pensare a quello che poi succede fuori, delle nostre decisioni.

Kui ha la mia età, è nata in Kenya, ha vissuto in Senegal e in Costa d’Avorio, parla tre lingue, ha studiato legge in Inghilterra.

Poi è tornata in Kenya, ed ha trovato un lavoro alle Nazioni Unite.

Fico, si dirà.

Beh sì, solo che a Kui il Kenya non piace per niente. O, meglio, magari le piace pure, ma certo le piacerebbe anche andare da qualche altra parte.

Ieri sera eravamo a casa sua a bere una birra, e a parlare del fatto che alle volte sembra che la vita non va da nessuna parte e nulla succede e bisognerebbe proprio cambiare aria...

E allora io mi sono resa conto che a lei, che è in tutto e per tutto come me, anche meglio di me, se non per il suo passaporto, io non potevo dire: “beh dai, puoi sempre andare via e vedere se da qualche altra parte succedono cose migliori” che è quello che faccio io di solito quando mi accorgo che ho proprio bisogno di aria e rinnovamento...

Eh no, invece, niente aria e rinnovamento per Kui.

Che con un passaporto kenyano non c’è davvero verso di andare da nessuna parte, nemmeno a fare del turismo, nemmeno per andare a rimorchiare i brasiliani in spiaggia a Rio (fantasie da femminucce). Semplicemente l’europa e gli stati uniti sono off-limits, punto. E se proprio volete vedere com’è fatta l’america, potete sempre guardare Friends in televisione.

Ed il problema non sono nemmeno tanto i soldi che Kui dovrebbe dimostrare di avere in banca per avere un visto (una cifra spropositata, tra parentesi), quanto l’umiliazione di vedersi trattare come una sorta di mendicante fuori dalla porta. A qualcuno giustamente educato con l’orgoglio della sua classe sociale, semplicemente non va giù l’idea di fare la fila fuori da un’ambasciata, sotto il sole, dalle sei del mattino, con le guardie di sicurezza che pascolano la folla come se fosse pecore, e dover sostenere un’intervista (un’intervista??) per venire a roma a comprare la riproduzione di gesso del colosseo, e lanciare la monetina nella fontana di Trevi.

Non mi volete? Beh allora ciao grazie tante. Questo pensa Kui ed un sacco di persone come lei, che perfettamente si rendono conto dell’assoluta ingiustizia, dell’orribile razzismo delle leggi europee sull’immigrazione (ma poi, perchè immigrazione? Mica ci vogliono restare, credetemi... ) ma anche si rendono conto di non poter far niente per cambiarle.

Così, mentre ero lì che mi mordevo le labbra per non dire “beh coraggio puoi sempre andare da qualche altra parte”... (che sarebbe davvero stato di cattivo gusto ed ahimè, è quasi sempre di cattivo gusto quando ci si rivolge a qualcuno con un passaporto africano) mi sono immaginata alla rabbia assoluta che avrei provato io se sottoposta simile trattamento, alla frustrazione ed anche al risentimento...

Ed è così che –quando spiego a Kui che voglio provare a fermarmi qui un po’ di più e a trovare un lavoro qui- le vedo ogni tanto un sorrisetto tirato sulla faccia, da colei che pensa (giustamente) che io posso andare e venire e stabilirmi a mio piacimento, posso anche impunemente “rubare” il lavoro a centinaia di Kenyani educati e bravi quanto me, mentre lei, che è brava brillante e capace, non può nemmeno immaginare di andare a cercare un lavoro a Londra.

Poi, siccome credo di starle simpatica, sorride e mi dice “Yes, don’t worry, you’ll find it, and it will be good...”

Insomma, alle volte vorrei sotterrarmi per la vergogna. Per non aver pensato abbastanza, per non aver protestato abbastanza, perchè posso andare e venire sempre a mio piacimento, ma che gusto c’è se –facendolo- poi devo lasciare le persone migliori che trovo?