
Sunday, January 28, 2007
Kibera

Friday, January 26, 2007
slum marathon
Ieri sono stata a vedere questa cosa grandiosa organizzata dai Comboniani a Korogocho. Ci ho scritto un'articolo che è pubblicato qui:
Marathon marks end of Social Forum
considerazioni a parte:
a me solitamente i preti non piacciono. Però, magari, se li sbattessimo tutti a Korogocho, Kibera e Mathare, qualcosa di utile potrebbero fare persino loro.
Tuesday, January 23, 2007
Di Topshop, e dell’estetica dello sviluppo
Voglio il frappuccino. Voglio andare una settimana in vacanza ad Oxford Street e fare shopping in quei negozi ENORMI con dentro cose che non ho l’immaginazione per desiderare e bisogna che le veda per scoprire di non poterne fare a meno...
Voglio comprare le mutande e poter scegliere tra 40 differenti modelli e fantasie.
Voglio mangiare le caramelle gommose mentre mi faccio le unghie e potermi fare le unghie mentre mi provo i vestiti ed andare su e giù e su e giù per le scale mobili di Topshop.
Ho la crisi del quarto mese. Una specie di astinenza da occidente che ti prende all’improvviso e si manifesta in desideri inspiegabili ed attacchi di bieco consumismo ai quali non si può dare soddisfazione. E non che Nairobi non sia, in qualche modo, un posto occidentale. E’ che gli manca –perdonatemi se sembro cinica, ma il cinismo è il pane della sopravvivenza da queste parti- lo sparkling, lo scintillio....
Qui è tutto generalmente polveroso, generalmente maleodorante, generalmente rotto, in cattivo stato, un po’ cadente.. La maggior parte delle persone ha le scarpe bucate, e molti hanno anche i vestiti a brandelli. Un sacco di persone puzzano perchè non hanno l’acqua per lavarsi.
Io – che ho passato la vita a passeggiare per uno dei posti più belli del mondo senza rendermene conto- faccio fatica a difendermi dagli attacchi che la povertà fa allo sguardo, dalle pile di immondizia con i bambini sopra a caccia di cibo, dagli avvoltoi che si mangiano le carcasse degli animali vicino all’aereoporto.
Non so, forse topshop ha una funzione sociale. Come la televisione spazzatura. Nulla di brutto può succederti là dentro. Nulla di realmente hurting, nulla di così terribilmente vero e ineluttabile ed ingiusto come le cose che ogni tanto vedo e che ogni tanto vorrebbero invece il mondo semplice, il mondo in cui la cosa peggiore che può capitare è un unghia scheggiata, una frangia fuori posto, un tacco rotto.
Wednesday, January 10, 2007
No sugar, No money
Allora, ecco che –persino qui nell’enclave per expats in cui vivo e in cui sono rinchiusa da giorni perchè non riesco ad abbandonare l’ufficio- ci si accorge che questo, dopotutto, è proprio il “terzo mondo”..
E questo non vuol dire mica solo i bambini malnutriti con le mosche, ma tutta una serie di fenomeni assurdi che hanno una spiegazione solo in un’economia che purtroppo non si regge in piedi se non puntellata, ed a volte i picchetti cedono...lasciate che vi illustri:
Caso primo: è finito lo zucchero. Sì, capito bene. Non c’è più lo zucchero in tutto il Kenya. Noi abbiamo chiuso a chiave nel cassettino il mezzo barattolo che ci è rimasto, e guardiamo speranzose a tempi migliori.
La cosa va avanti circa da Natale. Nel nostro supermercato strafico, dove vendono il gorgonzola, il prosciutto e il pesto, gli scaffali dello zucchero sono rimasti preoccupantemente vuoti. Iniziale sconcerto.
Caso secondo: sono finiti i soldi. Non c’è più un solo ATM (Bankomat) funzionante in tutta Nairobi. I negozi non hanno più soldi per il resto, i genitori non sanno come pagare la retta della scuola dei figli, io ho 50 euro in casa (sempre nel cassettino dello zucchero) e quando finiscono chissà. Anche perchè quella kenyana è una economia sostanzialmente “cash”, in cui tutto si compra e si scambia alla vecchia maniera, e cioè con le banconote.
Ora, non è che le banconote siano finite. E’ che sono rimaste imprigionate.
Sono tre giorni che la polizia si rifiuta di fare le scorte portavalori alle banche ed ai negozianti. Il motivo è che le rapine sono tante e che gli standard si sicurezza sono bassi, e insomma, di poliziotti ne muoiono un sacco. Così sono scesi in sciopero. Che però non è che abbia molte speranze, visto il fatto che il vero problema è la sicurezza di questa città (che loro dovrebbero garantire, n.b) e che una pistola costa 10 euro a tre incroci da casa mia.
Insomma, tempi magri.
Povero Kenya.
Tuesday, January 09, 2007
eh??
Ora, io non so se vi rendete conto di cosa esattamente sia un villaggio nel sud della somalia, ma perlopiù è costituito da un centinaio di capanne e qualche casupola di mattoni rossi malcotti...
ora, già che i resti delle milizie delle corti islamiche si siano ridotti a nascondersi a Afmadow, la dice lunga sulla loro potenziale minaccia, ma vabbè, facciamo che vogliamo essere paranoici...
ma BOMBARDARE un villaggio? un posto dove se soffia il vento troppo forte già muoiono in dieci perchè stanno tutti appiccicati e non sanno dove ripararsi?
come diamine fa un C130 a "riconoscere il target" tra 100 identiche capanne? li avranno ammazzati tutti.
Barbari incapaci.
Monday, January 01, 2007
proud
UGANDA: IDPs unlikely to meet deadline to vacate camps
:)
Aggiunta: ok, non io da sola.. come sempre in questo tipo di pubblicazioni altre due persone ci hanno messo le mani... però la sostanza rimane la mia..
Aggiunta 2: beh, evidentemente lo avete letto proprio tutti, perchè oggi mi è arrivata una mail che dice che è il sesto più letto di questa settimana. yuppie. :) I am very very proud now..
Sunday, December 24, 2006
Ventiquattro
Devo dire che la vigilia di Natale all’equatore non fa esattamente lo stesso effetto che a casa.
Fuori c’è il sole a picco e le palme e l’unica concessione al Natale è un tizio tutto nero vestito da Babbo Natale che si aggira per il supermercato e proferisce degli “Oh Oh” da far accapponare la pelle.
Nonostante la deprecabile assenza di consona ambientazione, noi ci apprestiamo comunque a fare la cena di Natale.
Che devo dire si preannuncia divertente, visto che a tavola siamo 12 di 12 diverse nazionalità, e l’accordo è che ciascuno fa un piatto del suo paese.
Il menù che ne risulta:
- antipasti svedesi
- tacchino canadese
contorni honduregni
qualcosa di inglese ma non ho idea di cosa
insalata tedesca
apple pie america
tiramisù (sull’opportunità o meno di fare un tiramisù ai tropici conoscete già la mia opinione, ma vabbè mica potevo fare la guastafeste.)
Più piatti a sorpresa per gli altri paesi.
Un po’ mi manca il cocktail di scampi e la spigola delle zie (a proposito, mi aspetto almeno un commento con il menù della cena ;) ) ma per quest’anno sopravviverò.
Poi domani alle sei del mattino monto su un pullman e inizio la lunga tradotta verso la Tanzania e Zanzibar (dove non credo che arriverò prima del 26), che un po’ di mare proprio me lo sono meritato.
BUON NATALE.
Friday, December 22, 2006
Libri vacanzieri
I miei consigli:
Questo me l’ha dato da leggere il mio capo quando gli ho detto che avrei mandato l’application per il DPKO (UN Department for PeaceKeeping Operation) secondo me con l’intento di dissuadermi...
Io integerrima continuo per la mia strada... il libro è però una lettura abbastanza piacevole e che soprattutto dà l’idea degli indescrivibili disastri che alcune delle missioni di pace ONU sono stati (somalia, rwanda, liberia etc).
Anche detto: quello che vorrei DAVVERO fare da grande.
Lei scrive meravigliosamente di cose complicate e affascinanti di cui nessuno parla. Lette le prime venti pagine, l’unico desiderio è di prendere il primo aereo per Asmara, la città sopra le nuvole...
L’ultimo è un consiglio speciale per la mia amica Adele, che sono sicura impazzirà per questo e non ne potrà più fare a meno:
WHERE THE LION ROARS: An 1890 African Colonial Cookery Book
One of Africa's first English-language cookery books, newly released over a century after its first publication. As well as offering over 500 recipes for southern African delicacies (including sticky, ginger-flavoured melon preserve; Malay-inspired aromatic pickled fish, and spicy soetkoek biscuits) Mrs Barnes also provided her readers with instructions on making a traditional African polished-cow-dung floor; how to treat snake-bite and, the best method for discouraging mosquitoes. A fascinating book, illustrating the process that early British settlers underwent as they adapted to life in an unfamiliar environment on the other side of the world.
Thursday, December 21, 2006
Erode. Acholibur IDPs camp
Comunque, persino Erode si è commosso.
E c'è da dire che -in fondo- loro sono pure quelli che soffrono di meno, e si limitano a giocare nudi in mezzo alla spazzatura come farebbero tutti gli altri bimbi...
Sunday, December 17, 2006
natale
Mi permetto dunque di darvi dei consigli.
Anzi, un consiglio solo, che è questo: andate a visitare questo sito www.kiva.org
Ci troverete una lista di micro-progetti imprenditoriali che cercano un prestito.
Ci trovate Silvia, Joyce, Eric e moltissimi altri da quasi tutte le parti del mondo, che cercano uno sponsor per aprire o espandere la loro attività.
Tramite il sito, molte persone possono contribuire a raccogliere la somma che gli serve, donando 20-25 dollari alla volta.
20 dollari sono niente (e su, il cambio in euro li fa diventare proprio due lire) per le vostre tasche, ma una piccola fortuna se prestati ad una sarta in Equador, o a una parrucchiera in Togo.
Si chiama microcredito.
La persona che lo ha inventato, più di vent'anni fa, si chiama Mohammad Yunus ed ha vinto quest'anno il Nobel per la Pace.
Ed è uno dei miei idoli.
Perchè funziona, e ci scommetto di mio che tutti i vostri prestiti vi saranno restituiti.
Friday, December 15, 2006
sciopero
e allora io SCIOPERO.
e non vi racconto più niente fino a che qualcuno non si fa vivo.
che sennò mi sembra che parlo al MURO.
Ecco.
Tuesday, December 12, 2006
facce
Sunday, December 10, 2006
Gambella
La sera del mio primo giorno a Dadaab tremavo come una foglia in mezzo al deserto (e non è una metafora, il campo è davvero in mezzo al deserto e ci fa un caldo fottuto) con la febbre alta.
Il secondo giorno c’è stata la miracolosa guarigione (se qualcuno mi ha pensato in questi giorni, lo ringrazio) e dunque me ne sono potuta andare un po’ più liberamente in giro senza dover far scomodare la scorta speciale per riportarmi al campo-base.
Così mi sono data a fare le interviste per le quali ero venuta, ed ho passato la giornata in compagnia dei simpatici giovani del campo (d’altronde io scrivo una cosa che si intitola “Youth in forced migration”), per capire un po’ che cosa gli passa per la testa, se è vero che la vita del campo crea solo disadattati e gente buona solo per essere reclutata nelle milizie armate del proprio paese di origine (in questo caso le milizie delle Corti Islamiche).
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I Gambella a Dadaab non sono stati da meno.
Già che c’erano, visto che erano anche i più grossi e i più cattivi di tutti, si erano anche messi a fare scorrerie per gli altri campi, fino a controllare parte del traffico di khat che alimenta quasi completamente l’economia locale.
Così un giorno gli è venuto in mente di insegnare la pallacanestro ai Gambella. Che si sono ovviamente rivelati “nati” per lo sport, e si sono appassionati così tanto a questa nuova cosa, e ne hanno tratto così tanto orgoglio personale, che hanno formato una vera e propria squadra.Si sono messi ad organizzare tornei. Il preferito è “bianchi contro neri” in cui loro sfidano il personale delle ONG e puntualmente “li fanno neri”.
E sono fortissimi.
Tra l’altro, già che c’erano, alcuni di loro sono persino tornati a scuola.
(se non altro per imparare a contare i punti).
Ed hanno smesso di passare i loro pomeriggi a masticare il khat.
Ed un giorno magari diventano pure famosi.
Thursday, December 07, 2006
Giorno Primo 27-11-06
Dadaab non è un campo solo, ma è fatto di tre campi ad una certa distanza l’uno dall’altro: Ifo, Hagadera e Daghaley. In tutto ci vivono circa 160mila persone. Tipo una cittadina emiliana, per intenderci.
La maggior parte vive in tende e capanne come queste qui sotto, ma molti altri si sono costruiti delle specie di casupole con un po’ di mattoni e le lamiere come tetti.
Ora dirò una cosa impopolare ed anche antintuitiva, soprattutto se date un’occhiata alle foto: non se la passano malissimo. Nel senso: mangiano, e non ci sono epidemie (almeno non tanto spesso) e qualcuno va anche a scuola, anzi, a scuola ci vanno in molti, forse molti di più che in altre parti rurali del Kenya e –per certo- più di quanti ne abbiano l’opportunità in Somalia.Certo non è per niente una vita invidiabile, soprattutto se in più ci si mette la cattiva sorte, e ci si ammala, o si nasce malati, o si è vecchi o non si ha nessuno che si prenda cura di noi.
Vi racconto una storia.
Carmela (sì, Carmela, perchè dopotutto, anche se facciamo di tutto per non ricordarcelo, la Somalia è stata una colonia italiana per quasi 50 anni ed ancora qualcuno ha un nome italiano) ha 45 anni e vive ad Hagadera.Vive lì dal 1992, da quando è scappata da Mogadiscio a causa della guerra civile. Il marito è morto e lei è rimasta sola a vivere con due figli. Vivere da soli a Dadaab non è affatto facile. Ci sono moltissime cose da fare e a cui pensare alle quali una persona sola non riesce a stare dietro. Innanzitutto ci sono le distribuzioni. Ce ne sono di vario genere ed in luoghi e momenti diversi. C’è la distribuzione quotidiana (o quasi) delle razioni del World Food Programme.
Poi ci sono le distribuzioni speciali: mentre io ero lì l’oggetto del desiderio del momento erano i teli di plastica per coprire le capanne dalle pioggie torrenziali (eh, voi ci scherzate, col climate change, ma lì si è davvero allagato il deserto) e però per averne uno bisognava passare in fila quasi tutta una mattinata.
Insomma, non è facile fare tutte le file, e poi andare a prendere la legna per il fuoco e l’acqua per cuocere etc etc se si è da soli.
Incontro Carmela perchè è lei a chiedermi “un’intervista”. Le persone che vivono nei campi sono piuttosto abituate ai giornalisti, ed hanno ormai imparato ad usarli a loro vantaggio.Carmela ha una figlia di circa 12 anni, che si chiama Esterline e che è completamente paralizzata a causa della polio contratta quando era piccolissima. Esterline non si può muovere, e Carmela non può rimanere tutto il giorno a casa a prendersene cura, ed in più non le può dare le cure e l’assistenza (o anche la riabilitazione) di cui avrebbe bisogno.
Questa storia ha un lieto fine: Carmela mi racconta del giorno che ha letto il suo nome nella bacheca in cui l’UNHCR affigge i nomi di quelli che potranno usufruire delle procedure di asilo ed inserimento in un altro paese.
Mi racconta tutte queste cose perchè spera che così i tempi per ottenere tutti i permessi si facciano più brevi.
Poi mi dice una cosa commovente, che è la ragione per la quale scrivo questo post, e che è “bene, ora voglio che tu mi faccia una foto e che tu non ti dimentichi di me”.
Io non me la sono dimenticata.
E questa è la morale, pensatela come se uscisse dalla sua bocca. Non è detto che tutti i rifugiati debbano passare anni ed anni nei campi. Soprattutto se appartengono a categorie particolarmente vulnerabili, o se la loro salute è a rischio.Esiste la possibilità di accedere a dei programmi di “reinsediamento” che prevedono il trasferimento dei rifugiati nei paesi occidentali che si dichiarino disponibili.
Carmela andrà probabilmente in Canada, o in Australia o, se è fortunata, negli Stati Uniti.
Mi piacerebbe per una volta che il nostro paese smettesse di essere vigliacco e provinciale e proprio l’italietta rimasta ancora a faccetta nera, e che si assumesse le sue responsabilità per quello che è accaduto ed accade in Somalia, ed ai suoi abitanti. Mi piacerebbe poter ospitare Carmela, ed offrirle un posto migliore in cui vivere.
Alla fine l’UNHCR si è impietosita, e mi ha mandato indietro con una scorta militare speciale anti-vomito. (Per muoversi tra i campi, c’è bisogno di andare in convogli con la scorta armata, e le scorte si muovono solo tre volte al giorno ad orari fissi, quindi in questo caso hanno dovuto appunto trovare una scorta speciale per visitatore affetto da morbo).
Tuesday, December 05, 2006
viva
E' per dire che sono viva e che sto bene e che ho visto tantissime cose che non mi basteranno mesi a raccontarle tutte. (e voi siete fortunati che avro' un blog sempre molto interessante)
domani pomeriggio torno a Nairobi e da li' vi racconto.
Saturday, November 25, 2006
Il supermercato
E’ buffo come tutto quanto cessi molto presto di essere esotico e quanto ci si abitui in fretta a quello che ci circonda. Sotto un’altro punto di vista è incredibile come la routine, e la necessità che abbiamo alla routine, sia dura a morire.
Così dopo un po’ (e forse per fortuna, che non so se mi piacerebbe davvero svegliarmi tutti i giorni in un posto nuovo e strano e che non capisco..) tutto torna dopotutto “normale” e prevedibile ed abitudinario.
Prendiamo ad esempio il supermercato. Io con i supermercati ho un rapporto sociologico.
Me lo ha insegnato mio padre che quando ci portava in vacanza in luoghi più o meno esotici ci obbligava anche alla visita del supermercato locale, sostenendo che era molto più educativo che visitare la basilica. (non so quanto quest’ultima affermazione fosse dettata dalla scomodità e dalla noia del visitare basiliche, nonchè dalla fame, più che da effettivi intenti educativi).
In ogni caso io ho scoperto con gli anni che mio padre aveva ragione. Nulla è più illuminante del supermercato. Non solo sulle persone che ci circondano, ma soprattutto su noi stessi e sulle nostre abitudini.
Dopo la Standa, l’Oviesse, gli alimentari napoletani, e Tesco, ora il mio supermercato si chiama Nakumatt e vende tutte cose delle quali –la prima volta che ci sono entrata- non riuscivo assolutamente a discernere l’utilizzo...
Prima riflessione: incredibile come al giorno d’oggi la maggior parte delle funzioni d’uso siano legate non più ai nomi, ma alle marche. Ad esempio, non più detersivo, ma Dixan, non più yogurth ma Danone etc etc. Nel momento in cui Danone non è in commercio, diventa difficile riconoscere lo yogurth o il detersivo per i panni.
Seconda riflessione: l’occidentale medio (dunque me) vive in un mondo con determinati valori di riferimento che ha faticosamente costruito nel corso di una vita.
Danone è meglio di Vipiteno che però è meglio di Granarolo. Sainsbury è meglio di Tesco ma nulla è come Waitrose e via dicendo..
In questo la pubblicità a l’adverisement in generale hanno un ruolo cruciale. Ora, veniamo a qui, dove di pubblicità ce n’è pochissima, soprattutto per quando riguarda i prodotti alimentari e casalinghi in genere.
Devo dire di aver passato minuti di imbarazzo di fronte allo scaffale dei detersivi (una varietà sorprendente, tra l’altro) senza sapere quale detersivo fosse “meglio” comprare. Educata da 25 anni di pubblicità comparativa e molto spesso menzognera mi sono ritrovata a chiedermi quale –tra i detersivi- meglio si confaceva al mio stile di vita, al mio ruolo sociale etc etc...
Alla fine ho comprato un detersivo prodotto in Kenya, non di importazione, ed ho deciso che l’autoctonia era un buon criterio..
Terza riflessione: Nella maggior parte dei casi, quando si entra in un supermercato in un nuovo Paese, ma ancor di più in un nuovo continente, la prima impressione è che non ci sia niente di commestibile. Questo accade un po’ perchè –privati delle marche cui siamo abituati- non riusciamo nemmeno più a riconoscere il pane in cassetta, un po’ perchè naturalmente il cibo in vendita è funzionale ad un’altra cucina e ad altre abitudini alimentari. Ci vuole sempre un po’ a capire cosa si possa mangiare e come vada processato il cibo.Con gli anni ho imparato che nessuna delle ricette italiane che conosco è praticabile fuori dall’Europa (esclusa l’Inghilterra, che va considerata anche culinariamente fuori da Shengen), per ovvia mancanza di materie prime e per la povera qualità dei surrogati (nonchè per il fatto che –nel caso si riesca a trovare del prosciutto- esso costa come due stipendi di un maestro di scuola).
Così tutte le volte che cambio paese devo rinventarmi una cucina. In Inghilterra andava bene il genere Turco-Libanese-Siriano, qui in Kenya paradossalmente il Thai viene benissimo.Vattela a pesca come mai, ma si trovano senza problemi tutti gli ingredienti necessari per la cucina thailandese (o almeno il poco che io ne conosco).
Dunque mangio un sacco thailandese. Anzi, ancora più strano, cucino un sacco thailandese.
Se non fosse che tutti si aspettano da me che io faccia le lasagne e non i Pad Thai Noodles. Bah. Le lasagne. Come se io avessi la minima idea di come si fanno le lasagne, a tutte le latitudini.
Una proposta, ve ne prego: dopo il DOC e il DOP facciamo una normativa anche per il PLAP, Il Prodotto dalla Latitudine Protetta. Niente lasagne sotto il tredicesimo parallelo. Niente mozzarella a nord di Greenwich. Please.
Friday, November 24, 2006
reviews
From the bookshop of the Africa Centre (
It is a pity that libraries in
THE NEW SINOSPHERE:
This Institute for Public Policy Research collection of essays addresses different aspects of Chinas relations with Africa, including the history and politics of the relationship, as well as
Paperback GBP9.95
SILENT ACCOMPLICE: Untold Story of
The massacre of 1 million Rwandan Tutsis by ethnic Hutus in 1994 has become a symbol of the international community's helplessness in the face of human rights atrocities. It is assumed that the West was well-intentioned, but ultimately ineffectual. But, as Andrew Wallis reveals in this shocking book, one country -
2006 1845112474 Hardback GBP20.99
(scusate ma non ho tempo di rifare la storia
Vergogna.
Thursday, November 23, 2006
Out of Italy
Del film di Deaglio sui brogli elettorali del 10 aprile. Esce Sabato, si trova in edicola.
che certo sono sempre buoni tutti a dire io lo sapevo io lo sospettavo quella notte terribile che i conti non tornavano e tutti i grafici sembravano impazziti..
però io DAVVERO LO SOSPETTAVO.
Ukraina, Ukraina. Meno male che le cose sono andate diversamente.
Sunday, November 19, 2006
references
UNHCR- storie di giovani rifugiati
Ninemillion.org
Danish Refugee Council programme in Dadaab
a poi volevo farvi vedere questa foto, che ritrae i designer della Nike che sono andati a Dadaab a disegnare le uniformi della squadra femminile di pallavolo del campo.
(founded by right to play)
sicurezze momentanee
Vi aggiorno su quello che a questo punto, dopo una settimana di delirio organizzativo, sono sicura di fare.
Le mamme prendano appunti, e considerino che sono in missione ufficiale per le Nazioni Unite, e che mi sono registrata sul sito dell’Unità di Crisi del Ministero degli Esteri, dunque non preoccupatevi, che perdermi non mi perdono e che ci sarà qualcuno più o meno sempre a tenermi d’occhio.. (o qualcuno con cui le mamme possono rifarsi se nessuno mi tiene d’occhio).
Allora, il 27 alle sei del mattino prendo l’aereoplanino dell’ UNHCR e volo fino a questo posto che si chiama Dadaab e che è al confine con la Somalia e che è un campo per rifugiati che ospita circa 160.000 rifugiati somali.
(il mio primo terrore: ma secondo voi quanta paura fa volare su un aereo da 11 posti??)
Lì vado a fare le interviste ai rifugiati ed alle agenzie che lavorano con loro. Sempre che non siano tutti annegati sotto l’inondazione (qui la stagione delle pioggie sta facendo davvero dei danni incredibili).
Alloggio da qualche parte che spero mi fornisca UNHCR.
Torno il 29 pomeriggio.
Il 30 mattina prendo un aereo Kenya Airways (meno paura!) per Entebbe, l’aereoporto di Kampala, in Uganda. Prendo taxi, alloggio a Kampala (dove ancora non so, ma Kampala è città grande e civile e piena di alberghi).
Il primo dicembre altro aereoplanino (e dagli!) fino a Gulu.
Sto a Gulu due giorni, poi con macchina OCHA vado a Pader il 3 dicembre, dormo a Pader nel compound di OCHA, il 4 mattina parto per Kitgum, da lì di nuovo aereoplanino fino a Kampala.
Pfiuuuuuuuuuu
Nota sulla sicurezza. La macchina ha un autista che è in contatto una volta all’ora con l’ufficio della sicurezza di Kampala. (tipo radar per le navi). Quanto al resto, voi incrociate le dita che i peace talks al momento in corso a Juba (Sudan) reggano e che si mettano d’accordo, che finchè stanno lì che chiaccherano, non mi succede nulla.
